La casa di Leicester Square  

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“E tu che cosa avresti intenzione di fare, signorina?” disse la signora Edgecombe a sua figlia, vedendola sulla soglia della propria stanza con un abito azzurro che non rispettava la Livrea.
La ragazza si aggiustò l’abito sui fianchi, osservandosi allo specchio. Non si voltò per guardare la donna, mentre le rispondeva. “Devo uscire per recarmi… non sono costretta a fornirvi indicazioni su quello che sto facendo, madre,” rispose Lily, girandosi solo in quel momento per lanciarle un’occhiata torva dietro gli occhiali rotondi.
“Non uscirai con un abito da svergognata come questo,” replicò l’altra, alludendo al colore sgargiante del vestito, che non corrispondeva al nero, grigio e bianco che la Livrea raccomandava per i tassi. A ribadire la sua intenzione, la donna si pose sul primo gradino della scalinata verso il piano inferiore, le braccia incrociate sul florido petto.
“Ripeto: non devo darvi alcuna giustificazione in merito alle mie scelte, madre,” concluse Lily, scandendo lentamente le parole, allacciandosi l’ultimo dei bottoni della giacca. Afferrò quindi il suo ombrello nero, si aggiustò gli occhiali sul volto, controllò che i capelli fossero raccolti nella sua abituale treccia e uscì dalla stanza, chiudendosi la porta della stanza alle spalle. Con la mano fece cenno alla madre di scostarsi dal suo posto; la donna obbedì, spostandosi con studiata lentezza e continuando a fissare la figlia da sotto le sopracciglia corrugate, dietro i grandi occhiali a mezzaluna. Uno sguardo che avrebbe dovuto essere di fuoco, ma che incontrò la dura pietra del carattere di sua figlia, che non ebbe alcuna reazione.
“Non combinerai mai nulla di buono, signorina,” continuò lei, seguendola per le scale fino al piano terra. “E’ proprio questo tuo fare da… svergognata che ha fatto scappare tutti i pretendenti di un certo livello da questa casa. Hai ventisette anni, e sei ancora nubile!”
“E con ciò?” replicò Lily, voltandosi di scatto verso sua madre. La donna trasalì al gesto inaspettato.
“Con ciò… sei la vergogna di questa famiglia,” ribatté la madre, riprendendosi. “Le tue sorelle sono già maritate da anni, ormai. Bell’esempio che dai, come sorella maggiore.”
“Forse non lo avete ancora ben compreso, madre, ma sono io che decido con chi, come e quando accasarmi. Se mio padre fosse ancora vivo sarebbe d’accordo con me, lo sapete benissimo. Ed è per questo che, dalla sua morte, non fate altro che cercare di comandarmi come se fossi una schiava!”
“Da quando cercare buoni partiti per mia figlia sarebbe “comandarla come una schiava?” Sto solo cercando di darti un futuro, signorina Lily Edgecombe, proprio perché non voglio che tu faccia la fine di quello spiantato pazzo di tuo padre.”
“Mio padre non era pazzo!” esclamò Lily. “E non vi azzardate a chiamarlo ancora in questo modo, sono stata chiara?” disse, puntando contro la madre l’ombrello.
La donna arretrò di un passo, cercando di evitare la punta metallica dell’oggetto. “Siamo arrivati a questo punto, signorina?” disse, in tono gelido. Un tono che non ammetteva repliche: si stava sensibilmente tracciando una linea di demarcazione, con quella ribellione, un confine indelebile fra le due.
“Mi ci avete spinto voi,” replicò Lily, abbassando l’ombrello. Si voltò e aprì la porta. “E ora, buona giornata,” fece, uscendo e chiudendo la porta prima che l’altra avesse modo di replicare.
Fuori, l’aria di Londra era tersa, appena dopo la pioggia. Centinaia di pozzanghere chiazzavano le vie, e i cuccioli correvano in ogni dove, mentre la gente tornava ad uscire di casa dopo il brutto tempo. Lilly assaporò il profumo della primavera appena iniziata, sospirò, quindi scese i tre gradini dell’ingresso e si avviò verso la Loggia dei Costruttori.
Gregory Edgecombe, il padre di Lily, era un inventore iscritto alla Loggia. Da sempre aveva cercato di incuriosire sua figlia al suo lavoro, a quelle macchine meravigliose contenute nei suoi appunti e nei suoi schemi. Macchine che non sempre funzionavano a dovere, e a volte non funzionavano affatto, ma rimanevano per la piccola Lily oggetti misteriosi e fantastici, originati dalla mente di suo padre e quindi ancor più degni di ammirazione. Il seme era stato piantato in profondità, aveva germogliato e, dopo la sua morte per malattia, aveva dato il suo frutto: Lily aveva deciso di percorrere la sua strada.
Ma, per farlo, le sarebbe servito il beneplacito della Loggia, non facile da ottenere per un uomo e probabilmente ancor più complesso per una donna, dato che, a memoria, non ricordava neanche un nome di una inventrice Inglese. Sapeva che sarebbe stata una strada in salita, ma l’idea la stuzzicava, invece di spaventarla o preoccuparla. Aveva la testardaggine e il temperamento solido e intransigente di suo padre, oltre ai suoi appunti e ai suoi libri, e sperava che questa silenziosa eredità potesse esserle utile per il suo futuro.
Sentì il frastuono del gurney a vapore ben prima che questo le si avvicinasse, distogliendola dalle sue considerazioni. La grossa carrozza, mossa da una congerie di ingranaggi che afferivano a quello che sembrava un enorme calderone nella parte posteriore del mezzo, portava le insegne dell’Ufficio Notarile Henson & Hewson. Lily increspò le sopracciglia: i due avevano fama di essere degli ignobili lucratori pericolosamente al confine con l’usura.
Il conducente, seduto a cassetta, manovrò il gurney affinché si fermasse presso di lei, sferragliando e lasciando dietro di se una gran nuvola di vapore. Il finestrino al suo lato si abbassò, facendo sporgere il volto di un furetto. “Miss Lily Edgecombe, suppongo,” fece questo, con una vocina stridula che ben si adattava alla spigolosità del muso.
“Al suo servizio, signor… Non ho il piacere di conoscerla,” fece Lily, accennando un inchino.
“Richard Hewson, dell’Ufficio Notarile Henson & Hewson,” rispose l’altro, prima di aprirle la porta. Una scaletta si abbassò, con uno sbuffo di vapore e diversi cigolii che le fecero temere per la sua integrità strutturale. “La prego di salire, signorina. Abbiamo notizie di estrema importanza per lei.”
“Notizie di quale tipo, signor Hewson?” chiese la giovane, insospettita, prima di salire.
“Estrema importanza,” ripeté l’altro. “Da parte di suo padre, il signor Gregory Edgecombe.”
Sentir suo padre menzionato dal furetto fece trasalire Lily, che ebbe un tuffo al cuore. Si affacciarono alla sua mente mille prospettive, nessuna delle quali positiva: debiti mai estinti, problemi giudiziari, pegni e pignoramenti di cui nessuno era a conoscenza… Ma fu sufficiente ad incuriosirla, e a farla entrare nel gurney.
Sedette accanto ad Hewson, dato che il sedile opposto era occupato quasi per intero dalla mole di un ratto piuttosto corpulento, che Lily ipotizzò potesse essere il collega del furetto. Si aggiustò abito e coda, e rispose al saluto del ratto con cortesia.
“Signorina Edgecombe,” disse quest’ultimo, mentre Hewson faceva cenno al conducente in cassetta di riprendere il viaggio. Lily si era attesa di sentire l’abitacolo risuonare del frastuono del motore, ma il silenzio ovattato dell’interno la costrinse a ricredersi. “Quando ha avuto luogo il suo ultimo, ventisettesimo compleanno?”
Un po’ piccata per l’allusione alla sua età, Lily rispose subito: “Due giorni or sono, signor Henson.”
“Felicitazioni, signorina,” rispose l’altro.
Lily colse con la coda dell’occhio il furetto estrarre una cartellina da una valigetta in legno, posta al suo fianco. “Bene, signorina Edgecombe,” fece Hewson. “Questo ci autorizza, secondo le disposizioni lasciate da suo padre, a consegnarle questa.”
“Disposizioni?” chiese la ragazza.
“Suo padre, il signor Edgecombe, ha consegnato questi documenti al nostro studio, esattamente tre anni fa,” spiegò Hewson, indicando con un’unghia affilata una iscrizione con una calligrafia estremamente curata sulla cartellina, recante la data del 20 Marzo 1864. “Pregandoci di consegnarli il giorno 20 Marzo 1867 a sua figlia, dovunque ella fosse stata.”
“Di che cosa si tratta?” chiese Lillian, notando il sigillo in ceralacca che ancora chiudeva la cartella. Era pesante, e sembrava contenere dei fogli rilegati; forse un libro? O degli appunti? Suo padre aveva l’abitudine di annotare sempre ciò che gli passava per la testa, fossero idee per delle nuove macchine o altro.
“Non ci è dato di saperlo, signorina Edgecombe,” rispose Hewson. “Non abbiamo mai aperto la cartellina, come espressamente richiesto da suo padre. E,” disse, ponendo la sua mano su quella di Lily, impedendole di aprirla. “Ci è stato anche richiesto di limitarci a consegnarla e a non essere testimoni dell’apertura, signorina.”
“La dovrò aprire fuori di qui, dunque?”
Henson annuì con vigore, scatenando ondulazioni su tutta la sua massa. “Assolutamente, e possibilmente al riparo da occhi indiscreti, signorina.”
“Noi siamo autorizzati solo a consegnarle questa busta. Oh,” fece poi Hewson, frugando nella valigia. “Dimenticavo: il lascito di suo padre consiste anche in questa,” disse, consegnandole una chiave di ferro, grande più della sua mano e molto pesante.
Appesa ad essa c’era una targhetta di carta, con un indirizzo vergato in quella che Lily riconobbe subito come la calligrafia di suo padre. “Ci è stata consegnata assieme alla busta,” spiegò Henson. “E’ una bella villa. Abbiamo ricevuto istruzioni di portarla in loco noi stessi, ed è infatti lì che ci stiamo fermando,” fece poi, affacciandosi dal finestrino del gurney. “Ci siamo, signorina.”
“Prima di scendere, signorina Edgecombe,” disse Hewson, vedendo che Lily si stava precipitando ad aprire la portiera. “I nostri più sentiti omaggi,” fece poi, levandosi il cappello. “Se mai avesse… signorina Edgecombe!” la chiamò.
Ma ormai Lily si era lanciata in strada e si trovava ora dinanzi alla grande villa di Leicester Square.
La costruzione era imponente, quasi interamente in legno e bronzo, a tre piani e ricco di finestre dai vetri decorati. Tutto era lucido, tutto sembrava pulito, come se fosse ancora abitata. Spesso le era capitato di passarvi di fronte, con vari mezzi, negli anni precedenti assieme ai vari membri della famiglia, ma non vi aveva mai prestato attenzione.
Lily controllò l’indirizzo, verificando che fosse quello giusto. Osservò la chiave. La testa era semplice, con pochi rilievi grossolani, mentre l’impugnatura era abbellita da quella che sembrava una ruota dentata in rame, tenuta coesa al resto della chiave da una serie di spire, ancora in ferro battuto, che l’avvolgevano per tutto il diametro, come una ragnatela metallica.
Si avvicinò alla porta, ancora in ammirazione, e provò a far girare la chiave nella toppa. Sentì la serratura scattare con un “clic” pulito, cristallino; impugnò il pomello e spinse, aprendo l’uscio.
L’interno della villa sembrava una copia perfetta della sua casa: un ingresso lungo qualche metro, al termine del quale due arcate conducevano ad altre stanze e una scalinata collegava il piano terra al primo. C’era anche uno specchio identico a quello della sua casa, appeso al muro sulla destra.
Lily entrò, confusa, e richiuse la porta alle sue spalle. Un rapido giro per l’appartamento le fece capire che il piano terra era effettivamente la replica perfetta di quello della sua residenza. Possibile che Gregory Edgecombe avesse voluto copiare in quel modo, così preciso e quasi maniacale, la sua abitazione?
Una piccola porta, posta sotto la scalinata, che non aveva eguale nella sua dimora abituale, colse il suo sguardo. La serratura sembrava simile a quella del portone d’ingresso: tentò di infilarvi la chiave, che entrò e girò. Ancora una volta, uno scatto secco le segnalò che la serratura era stata sbloccata. Lily inarcò un sopracciglio, perplessa.
La porta dava su una seconda scalinata, che proseguiva verso il basso. Non c’era luce in quel tunnel, ma, aguzzando lo sguardo, le sembrò di cogliere la presenza di un’altra porta, probabilmente in metallo.
“Ehilà?” disse una voce dall’uscio. Lily trasalì, facendo un passo indietro. La cartellina cadde in terra, lei impugnò il suo ombrello e lo puntò in direzione della voce.
Sulla porta si stagliava la silhouette di un cane, molto alto.
“Chi è?” chiese Lily, chinandosi a recuperare la cartellina ma senza smettere di puntare alla porta.
“Lei… voi dovete essere la figlia del dottor Edgecombe, suppongo,” disse l’altro, avvicinandosi. “A giudicare dalla specie e dal carattere, almeno.” Indossava una distinta giacca color ferro e un paio di occhiali pince-nez dalle lenti scure, specchiate.
“E voi chi siete? Perché siete in casa di mio padre?”
“Perdonatemi, signorina. Mi chiamo Miles Ferguson,” rispose l’altro, con un lieve inchino. “Sono il custode della villa. Suo padre mi ha chiesto di mantenerla in ordine fino a quando non sarebbe passata in mano sua. Lily, se non erro.”
Lei abbassò la punta dell’ombrello e abozzò un inchino a sua volta, ma senza smettere di tenere d’occhio il cane, un pastore tedesco. “Lily Edgecombe, signor Ferguson.”
Il cane sorrise. “Onorato di conoscerla, signorina Edgecombe. Sono stato molto vicino a suo padre…”
“Lei lo conosceva?” l’interruppe la tasso.
“Piuttosto bene, oserei dire, anche se ovviamente non quando lei.”
“Non mi ha mai parlato di lei… né di questa casa,” aggiunse. “Perché?”
Il cane scosse la testa. “Non saprei. Ha chiesto anche a me il massimo riserbo su ogni cosa. E ammetto di non sapere cosa avvenisse là sotto,” aggiunse il cane, indicando la porta.
“Sa dove conduce?”
“Un laboratorio, penso. Un’officina, uno studio. Non saprei, ho fatto mille congetture al riguardo, ma non ho mai avuto l’occasione di verificarlo di persona.”
Senza rispondere, Lily si precipitò per le scale.

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